Dedicato al personale dell’Ospedale Policlinico Casilino di Roma
Ad Agosto 2019 decido di accettare un lavoro in Colombia con un’organizzazione umanitaria, destinazione Bogotà. Si parte, io, mio marito e i miei due bimbi di 3 e 5 anni. Dopo qualche giorno, scopro di essere incinta e tra incertezza e gioia passiamo sei mesi meravigliosi sia dal punto di vista lavorativo, sia per la gioia di vedere i bambini integrarsi rapidamente alla nuova vita. La Colombia è un paese splendido e molto accogliente. Consapevole di un rientro in breve tempo in Italia per poter partorire in patria, ci godiamo questi mesi appieno, con l’incertezza di tornare o meno a Bogotà successivamente alla maternità. A febbraio siamo a Roma, siamo tornati a casa emozionati; gioia e malinconia fanno contrasto con un quotidiano da riadattare soprattutto per i bambini. Però sono felice di aver rivisto tutti i miei cari, i miei amici, mio fratello qui a Roma e l’altro che scenderà a breve da Torino. La mia migliore amica Elena che vive a Bergamo mi chiama dicendomi che il 21 febbraio scende a Roma per vedermi col pancione, assieme alla sua bimba Aurora di appena un anno e mezzo! Mi è mancata tantissimo!
Nei giorni successivi si inizia a sentir parlare serratamente di questo virus “cinese” e dei primi casi registrati fuori dal Paese. E poi quella telefonata di Elena il 20 per dirmi che lì, vicino a lei, hanno fatto zona rossa un paesino in cui avevano trovato i primi casi di Coronavirus… ero alla 35esima settimana di gravidanza e penso “sicuro la prossima settimana sarà qui”. Nella mia vita ho avuto la fortuna di vivere in diversi paesi chiamati “del terzo mondo” e per il lavoro che faccio ho visto luoghi in cui le persone vivono in povertà, abbandonate e prive delle tutele sanitarie, educative e sociali che abbiamo noi. Mai e poi mai avrei immaginato di vivere invece l’escalation di contagi a cui siamo stati testimoni in queste ultime settimane. Questo virus lontano a cui eravamo un po’ tutti disinteressati ha cavalcato velocemente l’onda della globalizzazione, rompendo le barriere di confine, razza, religione e piombandoci addosso come una pioggia tropicale, improvvisa e nefasta. Mentre passavano le settimane, assieme al mio pancione cresce la fatica di tenere i bimbi impegnati in casa. La situazione fuori non aiuta le ultime settimane di gravidanza, i contagi salgono, le restrizioni aumentano, la situazione sembra uscire dal controllo delle istituzioni competenti ed i miei pensieri iniziano ad essere inquieti: passo dall’immaginare un traumatico cesareo d’urgenza (come per il primo parto) ad una situazione di emergenza estrema in cui avrei rotto le acque nel mezzo della notte e mia madre non sentendo il telefono squillare per venire a casa dai bambini mi avrebbe costretto ad un parto in casa dall’epilogo evidentemente tragico.
Il 20 marzo, alle 7.30 di mattina apro gli occhi… i bimbi ancora dormono, uno col papà e uno con me… solita nottata movimentata a casa nostra. C’è un gran bel sole fuori e mentre mi avvicino alla finestra mi accorgo di star rompendo le acque… sveglio Sirio, mio marito, che inizia a balbettare dall’emozione, chiamo mia madre (che risponde) e metto su il caffè. Sono calma e non ho dolori, saluto i bambini e alle 8:40 sono davanti all’entrata del PS del Policlinico Casilino, dove una cara amica mi aveva convinto a partorire qualche settimana prima e che non smetterò mai di ringraziare. Sirio mi fa scendere e va a parcheggiare, “torno subito da te”, mi dice…
Infermiera all’entrata del PS: “Ha avuto sintomi influenzali negli ultimi 15 giorni?” …non posso assolutamente mentire perché sono una persona responsabile ed integra (poi in quel momento penso anche di essere in genere una persona fortunata). “Sì, mio figlio ha avuto tre settimane fa febbre che ha attaccato a tutti i componenti della famiglia, me compresa”. L’infermiera mi chiede immediatamente di indossare maschera e guanti e di stare a distanza: mi sento la protagonista di un film di fantascienza. Mi portano una sedia a rotelle e mi spingono dentro al PS: da quel momento in poi è un susseguirsi di azioni protocollari volte ad isolarmi per accertare il possibile contagio da Covid-19. Il tutto spiegatomi tra una contrazione e l’altra. Mi spostano in una stanza di isolamento e mi chiedono di aspettare l’arrivo del ginecologo e dell’ostetrica di turno.
Ancora non ho piena coscienza di cosa sta succedendo, mi chiedo quando mi sposteranno in sala parto ed intanto chiudo gli occhi e seguo il susseguirsi impetuoso delle contrazioni. Penso alle onde del mare, al colore della sabbia ed immagino di cavalcare quell’onda con il mio respiro. Cerco di concentrarmi ma le luci bianche intense e le persiane chiuse della stanza fanno crescere un senso di angoscia dentro di me. Mi chiedo dove sarà Sirio, se starà per entrare.
Arriva una ragazza della quale riesco a vedere solamente gli occhi, dei grandi e dolcissimi occhi, languidi e preoccupati. Indossa un camice celeste che la copre dalla testa ai piedi, mascherina, visiera trasparente sugli occhi, guanti e capo coperto. Mi sento a disagio ma vedo chiaramente lo stesso disagio nei suoi occhi, come a dirmi, mi dispiace! Mi spiega dolcemente che sono in una stanza di isolamento, che dovremo partorire lì (tra i fili del monitoraggio e senza potermi muovere praticamente), che sarebbe arrivata a breve un’infermiera per eseguire il tampone Covid-19, che lei sarà con me tutto il tempo e che Sirio non potrà entrare. Mi sento stordita e preoccupata al pensiero di non poter avere Sirio accanto. Prendo un respiro profondo, arriva un’altra onda e poi subito un’altra e i dolori iniziano a farsi sentire…come in un fermo immagine ricordo che per il mio primo figlio avevo deciso fin da subito di seguire il più possibile la natura e, dopo il categorico NO di Sirio sul desiderio di partorire in casa, ero decisa a partorire senza epidurale preparandomi con corsi di yoga vari e respirazione. Vivevamo a Panama all’epoca e dopo quasi 20 ore di travaglio, la storia ebbe come epilogo una spinale ed un cesareo d’urgenza con un post partum feroce. Ma non mollo! Tornati in Italia ne 2016 decido incaponendomi di partorire naturalmente anche se non erano passati 2 anni dal primo figlio. Mi parlano del Prof. Valensise ma ad una visita mi dice che secondo lui è ci sono dei rischi e ha remore a firmare la delibera del VBAC. Ma non mollo! Arrivo al Fate Bene Fratelli e trovo un ginecologo che mi dà fiducia. Nasce Cesare con VBAC ma con praticata episiotomia. I miei post-partum sono decisamente ostici! Per questo decido per il terzo parto di andare al Casilino, mi dicono che posso usufruire dell’epidurale e che praticano la barbara episiotomia solo in casi estremi!
All’arrivo del ginecologo “in armatura anti-Covid” (e dall’aspetto teso come una corda di violino) sono già di 6 centimetri di dilatazione (che bello in tempo per mettere l’epidurale!!). Lo riconosco subito, è il Prof. Valensise! Proprio lui, il dottore con il quale non avevo potuto partorire nel 2016…che beffardo il destino: torna sempre a ripresentarsi con le sue decisioni! Vederlo mi rilassa immediatamente invece: è gentile e delicato ed entra subito in empatia con me.
Mi permettono nel frattempo di chiamare Sirio che assisterà al parto in viva voce mentre arriva l’infermiera che esegue il tampone tra una contrazione e l’altra. Col suo fare amichevole e spontaneo, Sirio ci aiuta ad addolcire l’atmosfera e a dirimere la tensione nella stanza e la distanza che c’è tra noi. La dolce ostetrica mi prende le mani, dondolandomi mi chiede se ho voglia di mettere un po’ di musica ma mi sento impietrita e rigida e non riesco neanche a risponderle. Sento disagio addosso ma sono una persona fortunata e le doglie sono clementi, lasciandomi la forza di conversare tra l’una e l’altra con i dottori e con Sirio (che nel frattempo credo abbia terminato la seconda boccetta di Xanax). Arriva una contrazione forte e non posso muovermi, non ho spazio, vorrei piegarmi sulle gambe e resisto, penso a mia madre. “Signora non avrebbe senso mettere l’epidurale adesso, siamo ad 8 centimetri” e sono le 10.30 del mattino. Quindi ricapitoliamo un attimo: sono un’appestata in una stanza di isolamento, sto partorendo accanto a persone che non conosco e di cui posso solo immaginare il volto, ho una tensione addosso che mi toglie il respiro, mio marito chiuso in macchina nel parcheggio di un ospedale in preda agli attacchi di panico e non avrò neanche la consolazione dell’assenza del dolore… ok, dopotutto sono una persona fortunata, penso.
Non riesco neanche a ribattere, accetto la situazione, faccio un respiro. L’ostetrica mi guarda e mi dice che va tutto bene, che ce la farò, che lei è lì e che sto andando alla grande! Io mi sento fragile, mi tremano le gambe ed ho paura di non farcela, ho paura che qualcosa vada storto. Aprono le persiane e spengono la luce artificiale, decisamente meglio! Le contrazioni iniziano a togliermi il fiato, arriviamo a 10 centimetri. Adesso l’ostetrica ed il Prof. sono i miei punti di riferimento, forti, lucidi, tanto da sembrare la mia mamma e il mio papà. Sirio è lì al mio fianco. Sento forte l’impulso di andare in bagno e l’ostetrica mi guarda dicendomi : “iniziamo a spingere?”.
Mi sdraio sul lettino (i poggia piedi non si fissano bene e si muovono in continuazione aimè!). Sento adesso che le contrazioni prendono il sopravvento su di me. Prof e ostetrica mi riportano alla coscienza durante la tregua delle contrazioni, sono lì accanto a me, lavorano e si battono per me, con grande calma e professionalità. Mi indicano i passaggi da seguire, la successione della respirazione, mi preannunciano le prossime mosse e quello che sta per accadere. Non riesco più a respirare, i dolori sono ultraterreni (mi chiedo in quel momento come ha fatto l’umanità a continuare a riprodursi nonostante quest’apocalittico dolore!!). Inizio ad urlare e me ne vergogno “vai alla grande Cristina!” grida l’ostetrica ed ormai vedo solo lei ed i suoi occhi: la osservo in quel momento di estremo sforzo, ha nelle mani un sapere antico, si muove agilmente ed elegantemente con una minuzia artigiana. Riesce a preservare il mio corpo proteggendolo da gravi laceramenti difendendomi da una probabile episiotomia. “Bravissima Cristina spingi che si vede la testa!”, “Guarda è uscita la testolina!”, “Adesso fai quei respiri rapidi uno dietro l’altro, dai, bravissima, eccolo!!!”………sento immediato sollievo al passare del corpicino fuori dal mio e il piccolo viene messo su di me per alcuni istanti ma subito portato via, sono potenzialmente infetta da Covid e dobbiamo aspettare i risultati. Non possiamo abbracciarci, ma è come se lo facessimo, io, il Prof e l’ostetrica. Sirio piange al telefono e poi ricordo di rimanere lì sola nella stessa stanza per un po’, un tempo infinito in cui mi sento tra la vita e la morte, stanca e soddisfatta, impaurita e felice. Al ritorno dell’ostetrica non tratteniamo di certo le lacrime ed entrambe esauste ci guardiamo negli occhi: è stata una delle esperienze più forti della nostra vita, due tipe toste come noi!! Piangiamo assieme, ci ringraziamo ed è tutto così maledettamente bello. Le sfaccettature della vita sono imprevedibili ma un bimbo che nasce porta con sé, sempre, una luce di speranza anche nei corridoi più stretti e bui.
Le successive quattro ore in attesa del risultato del tampone le passerò in un’altra corsia del pronto soccorso con 7 pazienti sospesi tra la vita e la morte. Il piccolo è in reparto maternità e questo mi tranquillizza. E se fossi positiva non lo vedrei più? E la mia famiglia? E se lo avessi attaccato a mio padre e mia madre, ai bimbi e a Sirio? Un’ondata di paura pervade il mio immediato post-partum, quello che ti descrivono come fosse un salto in paradiso e che sogni passare con il tuo bebè tra le braccia, scoprendovi lentamente e odorandovi reciprocamente. Ed invece mi ritrovo in una corsia delirante, terrorizzata e stravolta, circondata da un’atmosfera tra il tetro e il teatrale (che alla fine la romanità verace fa ridere anche in corsia e anche quando si è moribondi!). “Cristina, test negativo, tra poco ti spostiamo”, mi scrive l’ostetrica. Vedi che alla fine sei una persona fortunata, mi dico!
Alle ore 12.19 del 20 marzo 2020, nel giorno dell’equinozio di primavera, un bimbo viene al mondo in una sala di isolamento del PS del Policlinico Casilino a Roma, con mamma con guanti e mascherina e medici in armatura anti-Covid19. Questo bimbo ha portato una luce di speranza nonostante le avversità del momento ed è per questa ragione che abbiamo deciso di chiamarlo Lucio!
Maria Cristina Bentivoglio, mamma di Lucio